Menu Bar

 

Capitolo II
Long Day’s Journey into Night

II.3.3. Influssi stilistici: la tecnica “supernaturalistica”

Per molto tempo l’opera di O’Neill (o almeno la sua produzione più tarda, di cui fa parte Journey) è stata erroneamente considerata uno degli avanposti della drammaturgia naturalistica.  Il gusto per la riproduzione realistica degli ambienti, una recitazione che mira alla creazione dell’illusione scenica dietro a un’invisibile “quarta parete”, e la tendenza a descrivere le situazioni attraverso una progressiva accumulazione di dettagli – tutte prerogative dell’estetica naturalistica[1] - caratterizzano senz’altro anche molto teatro di O’Neill, ma non sono sufficienti a dar conto della sua vitalità, né dell’ intenso impatto emotivo che i suoi drammi continuano a esercitare.  O’Neill non si sentì mai un drammaturgo naturalista: non aspirava a una mimesi calligrafica della realtà, bensì   sognava di realizzare - come ammise lui stesso - “something really real, in the sense of being spiritually true, not meticulously life-like”[2]. Se paragonato all’esasperato realismo illusionistico del teatro à la Belasco[3], lo stile dei  drammi di O’Neill esibisce una qualità lirico-simbolica più vicina alla tecnica espressionista che a quella naturalistica, benché il drammaturgo si rifiutasse di confinare la sua creatività ad alcun movimento o scuola, dichiarando: “I plan to use the method, whether it be naturalism or symbolism, that happens to fit in with the sort of drama I am writing”[4]

Quando, nel 1913, O’Neill iniziò a scrivere per il teatro, la drammaturgia americana poteva riassumersi con un unico sostantivo:  melodrama, ovvero un tipo di  rappresentazione “ad effetto”, senza particolari pretese di ricerca formale, finalizzata a  un facile svago del pubblico  e  al successo commerciale  della pièce.  A Broadway l’industria teatrale aveva già sviluppato solide radici nell’ultimo ventennio dell’Ottocento, ma non si trattava, appunto, che di industria: una produzione in serie di drammi ora lacrimevoli ora burleschi, in cui l’interpretazione dei “primi attori” e un impiego copioso di effetti speciali avevano la meglio sullo studio del carattere e su un’accurata costruzione della forma drammatica.

Per  trovare  un modello  di teatro  che avesse  come mèta del proprio lavoro una seria ricerca psicologica e stilistica, O’Neill doveva necessariamente guardare all’Europa dove, intorno al 1890, si era diffuso un po’ ovunque il movimento   dei “teatri d’arte”[5]: fra essi, uno dei più originali era il “Teatro Intimo”, fondato da Strindberg a Stoccolma nel 1907.  Insorgendo  contro  il  “teatro digestivo”[6] del  suo  tempo,  che si basava su un dialogo schematico e su una caratterizzazione statica e  superficiale,  Strindberg  aveva stilato, nella prefazione a Fröken Julie, un vero e proprio manifesto del teatro moderno, in cui si legge fra l’altro:

min motivering av handlingen är icke enkel; varje händelse i livet framkallas vanligen av en hel serie mer eller mindre djupt liggande motiv[...], denna mångfald av motiv vill jag berömma mig av såsom tidsenlig! [...]jag trott mig märka, att för nyare tidens människor det psykologiska förloppet är det som intresserar mest, [...]att våra vetgiriga själar icke nöjas mer med att se något försiggå, utan att få veta hur det går till![7]

I  “motivi più o meno nascosti”  che muovono l’azione drammatica, e il fascino per la “vicenda psicologica” di personaggi che Strindberg definisce “vacklande, söndergångna, blandade av gammalt och nytt”[8]  sono al centro anche delle indagini di O’Neill, che affermava di voler portare alla luce “the impelling, inscrutable forces behind life”[9], attraverso una nuova forma  di  dramma  che  avesse  a  che fare con “what might be called the soul of the character”[10].   Per  realizzare  tali  obiettivi,  la  tecnica naturalistica o “mimetica” era chiaramente insufficiente: O’Neill aveva bisogno di uno stile drammatico che gli permettesse di spingersi oltre la superficie dei fenomeni e di rappresentare efficacemente i conflitti interni alla coscienza dei personaggi.  Questo stile    egli lo trovò nei drammi di Strindberg, specialmente in quelli composti dopo la famosa “Infernokris”[11], la cui visione altamente simbolica e spesso allucinata della realtà era destinata  a  fare scuola.

Se ritorniamo all’articolo “Strindberg and Our Theatre”, che O’Neill aveva redatto come introduzione alla messinscena di The Spook Sonata da parte dei Provincetown Players, vi troviamo una lucida analisi del “metodo” strindberghiano, che qui  per  la  prima  volta   O’Neill  chiama “supernaturalismo” e del quale si professa seguace. Vale la pena di citare il programma diffusamente:

[Strindberg] carried naturalism to a logical attainment of such poignant intensity that, if the work of any other playwright is to be called “naturalism”, we must classify a play like “The Dance of Death” as supernaturalism and place it in a class by itself. [...] The old “naturalism” - or “realism”, if you prefer - no longer applies. It represents our fathers’ daring aspirations toward self-recognition by holding the family Kodak up to ill-nature. But to us their old audacity is blague; we have taken too many snapshots of each other in every graceless position; we have endured too much from the banality of surfaces [...]; we  have  been  sick with appearances[...]. Strindberg knew and suffered with our struggle years before many of us were born. He expressed it by intensifying the method of his time and by foreshadowing both in content and form the methods to come. All that is enduring in what we call “Expressionism” - all that is artistically valid and sound theatre - can be clearly traced back to Strindberg [...].[12]

Il termine “supernaturalismo”, coniato per descrivere l’abilità di Strindberg nel trascendere “la banalità delle superfici” attraverso una tecnica che intensifica i toni della situazione reale fino a renderla sur-reale, può ben essere applicato alla drammaturgia di O’Neill.  Nelle pièces scritte fino al 1932, l’impiego di dispositivi “supernaturalistici” è più marcato  - e culmina nei due esperimenti dichiaratamente espressionisti[13] The Emperor Jones (1920) e The Hairy Ape (1922), in cui la frammentazione interiore dei protagonisti si riflette in una rappresentazione drasticamente deformata della realtà; nei drammi composti dopo quella data (e dunque anche in  Journey), O’Neill fa invece un uso meno esplicito della tecnica strindberghiana, nascondendola sotto un’armatura realistica più tradizionale.   Ciò non impedisce che, come abbiamo cercato di mostrare a proposito del carattere metaforico della foschia  e  dell’abuso  di  stupefacenti  in  Journey[14], anche   nelle opere   a  prima  vista  più  convenzionali di   O’Neill   si   possa   rintracciare  un   fondamentale   intento   antifotografico, simbolico, in una parola moderno[15].

Uno degli aspetti più interessanti della tecnica antinaturalistica, sia di Strindberg che di O’Neill, consiste nell’impronta estremamente originale del loro linguaggio drammatico[16].  Nei drammi di Strindberg, i personaggi si esprimono spesso con cadenze bizzarre, come se le loro coscienze fossero in perenne oscillazione tra la veglia e il sonno. I loro discorsi  sembrano riferirsi solo in parte all’esperienza ordinaria del vivere: essi somigliano piuttosto a grida angosciose provenienti dalle profondità dell’inconscio, che rivelano “what people think, instead of what people really say, which is an expression [...] of truth”[17]

Da parte sua, O’Neill aveva dichiarato in un’intervista del 1926: “I never intended that the language [...] should be a record of what the characters actually say. I wanted to express what they feel subconsciously. [...]This is indeed what is most human - most real - about [the] characters”[18].

La particolare qualità sonnambolica del linguaggio strindberghiano  si   ritrova  in  tanti  monologhi  di  O’Neill, in particolare nei veri e propri flussi di coscienza cui s’abbandonano i personaggi in Strange Interlude, e  nell’elaborato arazzo di “audible thinking”[19] che i Tyrone  tessono  attorno a  sé.   John Henry Raleigh ha notato, a proposito dello stile degli ultimi drammi:

in the late plays [O’Neill] came upon what might be called a “ghost” aesthetics, which suggests the existence - psychologically speaking - of a suprasensual realm, a kind of Melvillean whiteness, a grey somnambulist purgatory [...] which finally engulfs all the characters, who have split between reality and a shade.[20]

Nel   soliloquio  che  chiude  Journey,  Mary si spoglia del vuoto ruolo sociale di madre e moglie borghesemente affidabile - un  ruolo  che,  con grande sforzo,  aveva  tentato  di indossare  come   una    maschera   per   buona   parte   della   giornata -   e regredisce  completamente  in un mondo parallelo, immateriale, dove lei stessa e i famigliari che la circondano non sono che ombre. È l’universo dell’oblio, indotto artificialmente dall’effetto del narcotico, ma è anche - su un altro livello - un mondo “di sogno” in cui, nelle parole del Maestro Strindberg, “tid och rum existera icke”[21] ed è, in ultima analisi, il teatro stesso, se teniamo per buona la riflessione di Roland Barthes, secondo il quale:

Ce que le spectateur consomme au théâtre, ce n’est ni la réalité ni sa copie; c’est, si l’on veut, une surréalité, le monde doublé de ses signes.[22]


[1] Vedi: Pavis, P., op. cit., pp. 265-267.

 

[2] “qualcosa di autenticamente reale [corsivo mio, n.d.t.], nel senso che sia spiritualmente vero, non esattamente verosimile”. Lettera a G.J. Nathan, datata 5.7.1923 e citata in: Törnqvist, E., A Drama of Souls, p. 31.

 

[3] David Belasco (1853-1931), drammaturgo, regista e impresario americano, è il rappresentante per antonomasia del melodramma a tinte forti (ad es. The Girl of the Golden West, del 1905), che spopolava a Broadway tra Otto e Novecento.  In proposito vedi: Bigsby, C.W.E., op. cit., pp. 3-4.

 

[4] “Ho intenzione di utilizzare il metodo, sia esso naturalismo o simbolismo, che meglio si adatta al tipo di dramma che sto scrivendo”. Riportato in: Törnqvist, E., A drama of Souls, p. 28.

 

[5] Inaugurato da André Antoine nel suo Théâtre Libre parigino, esso contava fra i suoi esponenti il Teatro d’Arte di Stanislavskij a Mosca e la Freie Bühne di Otto Brahm a Berlino. In queste piccole sale, in cui il contatto fra attori e pubblico era più diretto e intenso che nelle sale “all’italiana”, si ebbero le prime rappresentazioni europee dei drammi di Ibsen e Strindberg. Furono i teatri d’arte europei a ispirare il cosiddetto “Little Theatre Movement”,  che  si  diffuse  negli  Stati Uniti  a partire dai primi anni del Novecento e che influenzò non poco i Provincetown Players, coi quali O’Neill iniziò la propria carriera. Sull’argomento si veda: Cappa, F. e Gelli, P. (a cura di), Dizionario dello Spettacolo del ‘900, Milano, Baldini & Castoldi, 1998, pp. 28; 624-25.

 

[6] Splendida definizione brechtiana dell’andare a teatro come vuoto rito sociale, modo innocuo   per  far  passare  la  serata   e,  appunto,  digerire  la  cena.   Citato  da  Luciano Codignola in: Strindberg, A., Teatro Naturalistico, Vol. II, Milano, Adelphi, 1982, p. 23.

 

[7] “la mia motivazione dell’azione non è semplice [dato che] ogni fatto della vita nasce di solito da un’intera serie di motivi più o meno nascosti e di questa complessità di motivi io mi vanto come di una cosa veramente moderna!  Mi è parso di notare che per le persone di oggi sia la vicenda psicologica quello che interessa di più, i nostri spiriti avidi di sapere non si accontentano più di veder succedere qualcosa, senza sapere come succede!”. Strindberg, A., Fröken Julie, in: op. cit., pp. 103-104; 109.

 

[8] “vacillanti, logorati, misti di vecchio e nuovo”. Ibid., p. 105.

 

[9] “le pulsioni urgenti e imperscrutabili [che si celano] dietro la vita”. Lettera a Barrett Clark citata in: Törnqvist, E., A Drama of Souls, p. 31.

 

[10] “ciò che si potrebbe chiamare l’anima del personaggio”. Ibid., p. 31.

 

[11] La crisi psicotica che accompagnò e seguì la composizione del testo di Inferno nel 1897. Dopo questa data, la produzione di Strindberg subisce una virata stilistica impressionante, e le sue opere passano dal naturalismo più o meno simbolico degli inizi a una maniera esplicitamente onirico-fiabesca. In proposito si veda l’introduzione di L. Koch a  Inferno  in: Strindberg, A., Romanzi e Racconti, pp. 691-704.

 

[12] “Strindberg portò il naturalismo a un logico climax di tale acuta intensità che, se chiamiamo l’opera di qualsiasi altro drammaturgo ‘naturalistica’, dobbiamo classificare un dramma quale Danza di morte come supernaturalismo e metterlo in una classe a sé. Il vecchio ‘naturalismo’ - o ‘realismo’, se si preferisce - non va più bene. Esso rappresenta le ardite aspirazioni dei nostri padri all’autoidentificarsi, fermando l’obbiettivo sui nudi fatti. Ma per noi la loro vecchia audacia è roba da ridere; ci siamo fotografati troppe volte in tutte le posizioni più sgraziate; abbiamo sopportato troppo a lungo la banalità delle superfici; ci siamo fatti venire la nausea con le apparenze. Strindberg conosceva e soffriva i nostri conflitti anni prima che molti di noi nascessero. Diede loro espressione intensificando il metodo del suo tempo e anticipando i metodi a venire sia nei contenuti che nella forma. Tutto ciò che è duraturo in quel che chiamiamo ‘Espressionismo’ - tutto ciò che è teatro serio e artisticamente valido - si può chiaramente far risalire a Strindberg”. O’Neill, E., “Strindberg and Our Theatre”, in: Frenz, H., op. cit., pp. 1-2.

 

[13] Anche se, come nota Törnqvist: “O’Neill did not feel that the term ‘expressionism’ fitted [his work]” (O’Neill non credeva che il termine ‘espressionismo’ fosse adatto a definire il suo lavoro). Törnqvist, E., A Drama of Souls, p. 31.

 

[14] Vedi II.2.3., pp. 69 e segg.

 

[15] E modernista, se è vero - come sostiene Joel Pfister - che “by repudiating theatre’s so-called realism [O’Neill] placed himself [...] in the front lines of literary modernists” (rifiutando il cosiddetto realismo a teatro, O’Neill si pose in prima linea nelle schiere letterarie dei modernisti). Pfister, J., op. cit., p. 61.

 

[16] Un aspetto che avrà enorme influenza sulla drammaturgia dell’assurdo.

 

[17] “ciò che la gente pensa, invece di ciò che dice apertamente, il che è un’espressione di verità”. Winther, S.K., op. cit., p. 111.

 

[18] “Non ho mai voluto che il linguaggio fosse una registrazione di ciò che i personaggi effettivamente dicono. Ho voluto esprimere ciò che essi sentono inconsciamente.   Questo è davvero l’aspetto più umano - più reale - dei personaggi”. L’intervista, che riguarda principalmente  il dramma  Desire Under the Elms,  è riportata in: Pfister, J., op. cit., pp. 61; 104.

 

[19] “pensiero udibile”. Così Törnqvist definisce “all speches which are not - or not exclusively - directed to any character on the stage and which therefore often transcend real-life plausibility” (tutti i discorsi che non sono - o non sono esclusivamente - rivolti ad alcun personaggio in scena, e che perciò spesso trascendono la verosimiglianza della vita reale). Törnqvist, E., A Drama of Souls, p. 199.

 

[20] “negli ultimi drammi O’Neill giunse a un’estetica ‘spettrale’, suggerendo l’esistenza - in termini psicologici - di un regno sovrasensibile, una sorta di ‘bianchezza’ melvilliana, un grigio purgatorio di sonnambuli che finisce per avvolgere i personaggi, i quali sono per metà reali e per l’altra metà ombre”. Raleigh, J.H., op. cit., pp. 150-51.

 

[21] “tempo e spazio non esistono”. Strindberg, A., Ett Drömspel, in: op. cit, Vol. 46, 1998, p. 7.

 

[22] “Ciò di cui lo spettatore fruisce a teatro non è né la realtà, né la sua copia; è, si può dire, una surrealtà, il mondo raddoppiato nei suoi segni”. Barthes, R., Sur Racine, Paris, Seuil, 1979, p. 29.

 

© Copyright 1999-2007 eOneill.com