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Capitolo II
Long Day’s Journey into Night

II.2. Analisi del testo

Fatte le necessarie premesse sul carattere singolarmente personale del testo (che troppo spesso è stato interpretato solo ed esclusivamente come documento biografico), è importante sottolineare come Long Day’s Journey into Night sia in ultima analisi un’opera di finzione drammatica, non un’autobiografia dichiarata, e richieda di essere esaminata come tale.  L’intensità del dramma, rilevata da molti commentatori[1], ha senz’altro a che fare con l’enorme investimento emotivo che la sua scrittura significò per O’Neill, ma è soprattutto frutto di una consumata tecnica drammaturgica, e solo per questo motivo la pièce è in grado di parlare al cuore di ogni pubblico, indipendentemente dal fatto che esso conosca o meno le vicende reali a cui il testo allude.   Come osserva Jean Chothia:

Although the personal nature of the material may well quicken the writer’s imagination, it can only speak to the audience when it has been shaped by that imagination into an artistic form with its own unity, apart from life.  If the play is an emotionally harrowing experience, it is so because of the stage characters and the stage action. [...] The dramatist writes dialogue, not speech, and presents not the O’Neills, who are people, but the Tyrones, who are characters. [...] Neither reality nor - as Oscar Wilde said - sincerity is sufficient to produce a work of art.[2]

L’analisi   che    qui   proponiamo    si   riferisce   al   “testo drammaturgico”[3] della pièce, cioè al dramma scritto e pubblicato in volume.


[1] Basti ricordare il più famoso di essi, T.S.Eliot, che definì il dramma: “one of the most moving plays I have ever seen” (Uno dei drammi più commoventi che io abbia mai visto). Citato in: Cargill, O. et al. (eds), O’Neill and his Plays. Four Decades of Criticism, New York, New York University Press, 1961, pp. 1;168. È curioso che a mettere l’accento sulla carica di pathos del dramma sia stato proprio Eliot, uno dei critici più rigorosi riguardo alle qualità formali del testo letterario, teorico convinto della necessità di mantenere l’opera indipendente dal suo autore/autrice.

 

[2] “Sebbene la natura personale del materiale sia senz’altro in grado di stimolare l’immaginazione dello scrittore, essa può parlare al pubblico solo quando è stata rielaborata dalla sua immaginazione in una forma artistica con la sua propria unità, indipendente dalla vita. Se il dramma è un’esperienza emotivamente straziante, è così per via dei personaggi e dell’azione in scena.  Il drammaturgo scrive dialoghi, non semplice linguaggio, e non ci presenta gli O’Neill, che sono persone reali, ma i Tyrone, che sono personaggi.  Né la realtà, né - come disse Oscar Wilde - la sincerità sono sufficienti a creare un’opera d’arte”. Chothia, J., Forging a Language. A Study of the Plays of Eugene O’Neill, Cambridge, Cambridge University Press, 1979, p. 145.

 

[3] Così Patrice Pavis definisce, nel suo Dizionario, il dramma scritto in quanto “fatto letterario” e lo distingue dalla realizzazione scenica di questo, che chiama “fatto teatrale” o “testo spettacolare”: Pavis, P., Dizionario del teatro, edizione italiana a cura di P. Bosisio, Bologna, Zanichelli, 1998, pp. 148; 485-491. Nella nostra analisi useremo un approccio al testo che Pavis definisce “filologico” (ibid., p. 488) e che si basa su “un’analisi delle azioni, degli attanti [i personaggi, n.d.r.] e delle forze direzionali [che determinano] il senso della vicenda” (ibid., p. 146).

 

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