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Capitolo II
Long Day’s Journey into Night

II.1. Il dramma all’interno del canone o’neilliano

II.1.1. Carattere autobiografico della pièce

Se la volontà ufficiale di Eugene O’Neill fosse stata rispettata, Long Day’s Journey into Night[1], “the finest tragic drama yet engendered by American culture”[2], uno dei testi più intensi della drammaturgia del Novecento, non sarebbe mai stato messo in scena.  Le ragioni di questo apparente paradosso, se si considera che la rappresentazione sulle scene è il naturale traguardo di ogni testo drammatico, possono essere comprese solo attraverso un attento esame del carattere eccezionalmente autobiografico del dramma e delle vicende private che ne originarono la scrittura.

Uno  degli aspetti su cui i critici si sono maggiormente soffermati, a  proposito di Journey e della  produzione   di O’Neill  in genere, è   proprio quanto pesi la conoscenza della biografia  personale  dell’autore  per  una  corretta  e  completa interpretazione della sua opera: esiste una folta letteratura critica (spesso, ma non solo, di carattere psicoanalitico), in cui l’esegesi dei testi del drammaturgo emerge da costanti riferimenti al suo vissuto e che conferma la tesi  di “un uso del palcoscenico, da parte di O’Neill, con l’intenzione di esporre coraggiosamente se stesso, di coinvolgersi intimamente e profondamente in prima persona”[3].

Il grado di accanimento “confessionale” che O’Neill raggiunse negli ultimi drammi (specialmente in Journey e nel seguito di questo, A Moon for the Misbegotten[4]) è eguagliato in teatro forse solo dall’opera di August Strindberg: soltanto Strindberg,  il quale  soleva  affermare  che “uno scrittore  non è che  il cronista  di quanto  ha vissuto”[5], aveva, prima di O’Neill, dato  vita  a testi drammaturgici di tale intensità autobiografica, in cui le diverse voci dei personaggi non fanno che ricondurre ossessivamente alle angosce private dell’autore.  Da parte sua, O’Neill amava definirsi “an emotional emophiliac”, un emofiliaco emotivo: le ferite spirituali, frutto delle tempestose relazioni famigliari in cui l’autore si trovò implicato, rimasero aperte e sanguinanti per il resto della sua vita e - come nel caso di Strindberg - costituirono una inesauribile fonte d’ispirazione drammaturgica.

Long Day’s Journey into Night  (scritto nel 1940  e pubblicato postumo nel 1956) è un dramma interamente basato sul ricordo di fatti realmente accaduti, che il drammaturgo concentra - nel rispetto delle unità classiche di luogo e tempo - in un’unica giornata d’agosto del 1912 e in un unico ambiente: la casa estiva  di proprietà di James Tyrone in una località imprecisata del New England (che è una copia esatta del Monte Cristo Cottage a New London, in Connecticut, dove gli O’Neill erano soliti passare le estati).  I quattro personaggi del testo sono cristalline trasposizioni drammaturgiche di Eugene, dei suoi genitori Mary Ellen e James e del fratello Jamie, in tutto corrispondenti ai modelli reali nelle fattezze fisiche e perfino nei nomi di battesimo.

Ritroviamo il materiale autobiografico, utilizzato da O’Neill nel dramma, in due documenti, che l’autore aveva redatto ad uso esclusivamente personale quando era stato in cura presso uno psicanalista nel 1926, e che sono stati scoperti e saccheggiati dai biografi: uno è un diagramma in cui sono tracciate “the familial forces that had shaped him in his early years”[6] (e che sembrano muovere attorno a un sentimento ambivalente di amore-odio nei confronti del padre); l’altro[7] contiene un riassunto schematico della storia famigliare degli O’Neill, imperniato sulla figura della madre.  Secondo Louis Sheaffer, queste carte si possono  considerare   “his   first step   toward   writing, some fifteen years  later, Long Day’s Journey into Night[8].

Un  esame  incrociato dei documenti, accostati al testo della pièce, rivela che la descrizione della realtà coincide quasi perfettamente con il resoconto letterario che di essa è dato nel dramma: in entrambi i testi, ad esempio, O’Neill fa riferimento - con espressioni sorprendentemente simili - all’abitudine del padre di somministrare ai bambini  cucchiaini di whisky[9], per calmarli quando avevano un incubo o il mal di stomaco, cosa che li avrebbe avviati all’alcolismo.   Anche il ritratto che Journey  delinea della madre corrisponde a quello tratteggiato nei diagrammi: entrambi ne sottolineano l’estrema solitudine, gli atteggiamenti di superiorità e il violento risentimento contro  il marito, per via del suo rifiuto di dare alla famiglia una dimora stabile[10].  Inoltre, sia nel dramma che nel promemoria si allude al sospetto che il nonno paterno di Edmund/O’Neill non sia morto accidentalmente, ma si sia tolto la vita, dando inizio col suo gesto alla maledizione[11] che incombe sulla famiglia.

La pièce è dunque un autentico “esercizio di memoria”, per quanto  selettiva   e  arricchita  da  elementi  di  finzione, in cui - come  si legge nella dedica introduttiva O’Neill  “affronta una volta per tutte”[12]  il  nodo  gordiano del proprio passato famigliare.


[1] O’Neill, E., Long Day’s Journey into Night, London, Jonathan Cape, 1956. Una traduzio-ne letterale vorrebbe  “Viaggio di un lungo giorno verso la notte”;  il dramma è però conosciuto, in traduzione italiana, col titolo di Lunga giornata verso la notte (nella traduzione di B. Fonzi pubblicata da Einaudi, ad esempio). Per semplicità, ci riferiremo spesso alla pièce come Journey. Traduzioni mie, salvo dove indicato diversamente.

 

[2] “la miglior tragedia finora prodotta in America”. John Henry Raleigh, citato in: Pfister, J., Staging Depth, Chapel Hill, University of North Carolina Press, 1995, p. 229.

 

[3] Bajma Griga, S., La crisi dell’american dream, Torino, Tirrenia, 1987, p. 12.

 

[4] Scritto fra il 1941 e il 1943, questo dramma descrive le sorti del fratello di O’Neill, Jamie, che morì alcolizzato nel 1923.

 

[5] Strindberg, A., Romanzi e racconti, Milano, Mondadori, 1991, p. ix.

 

[6] “le forze famigliari che lo avevano formato nei suoi primi anni di vita”: Sheaffer, L., O’Neill. Son and Artist, Boston, Little & Brown, 1973, p. 190. Il diagramma è riportato in: Sheaffer, L., O’Neill. Son and Playwright, Boston, Little & Brown, 1968, p. 506.

 

[7] Riportato in: Sheaffer, L., O’Neill. Son and Artist, pp. 510-512.

 

[8] “il primo passo [da parte di O’Neill] verso la scrittura di Long Day’s Journey into Night, [che sarebbe avvenuta] quindici anni più tardi”:  ibid., p. 191.

 

[9] Così O’Neill nota nel diagramma: “At early childhood father would give child whisky and water to soothe child’s nightmares caused by terror of dark” (Quando i bambini erano ancora piccoli, papà soleva dar loro whisky mescolato ad acqua per placarli dagli incubi causati dalla paura del buio), ibid., pp. 190-191.  In Journey, Mary accusa James di aver messo Jamie sulla strada dell’alcol, usando quasi le stesse parole: “And if he had a nightmare when he was little, or a stomach-ache, your remedy was to give him a teaspoonful of whisky to quiet him” (E se lui faceva un brutto sogno quando era piccolo, o aveva il mal di pancia, il tuo rimedio per calmarlo era di dargli un cucchiaino di whisky), O’Neill, E., op. cit., p. 96.

 

[10] Nel promemoria (dove M sta per Mother) si legge: “M—lonely life—spoiled before marriage, [...] always a bit of a snob, [...] feeling of superiority to people in New London. She pleads for home in New York but Father refuses. This was always one of her bitterest resentments against him all her life” (M—vita solitaria—viziata prima del matrimonio, sempre un po’ snob, si sente superiore alla gente di New London. Scongiura [il marito, n.d.t.] di comprare una casa a New York ma papà rifiuta. Questo [il fatto che la madre non potè mai avere una casa, n.d.t.] fu sempre uno dei risentimenti più violenti nei suoi confronti, per tutta la vita). Sheaffer, L., op. cit., pp. 510-511. In Journey, Mary  si lamenta spesso di sentirsi sola (frasi come “I feel so terribly lonely”[mi sento così terribilmente sola] ricorrono nel dramma come una litania: O’Neill, E., op. cit., pp. 40;73;82;93), non frequenta praticamente nessuno al di fuori dei membri della  famiglia, e attribuisce alla mancanza di un domicilio fisso il sentimento di disagio di cui tutti i Tyrone soffrono. Ad es. dice, riferendosi a Jamie: “If he’d been brought up in a real home, I’m sure he would have been different” (Se fosse cresciuto in una vera casa, sono sicura che sarebbe stato diverso), ibid., p. 70.

 

[11] Il suicidio sembra davvero essere un  vizio ereditario degli O’Neill. A  cominciare dal nonno paterno, non v’è generazione della famiglia che non abbia mostrato pulsioni autodistruttive, e messo in atto un tentativo di togliersi la vita: mentre Mary Ellen e Eugene ci provarono senza successo, entrambi i figli del drammaturgo si diedero la morte in circostanze drammatiche. Eugene Jr, ormai alcolizzato, si tagliò le vene nel 1950; Shane, caduto nella dipendenza da droghe pesanti, si gettò dalla finestra di uno stabile di Brooklyn nel 1977.  Fonti: White, W.S., “Eugene O’Neill Jr. is Found a Suicide”, The New York Times, Sept. 26, 1950; Shepard, R.F., “Shane O’Neill, Playwright’s Son, Suicide”, The New York Times, Dec. 7, 1977.

 

[12] L’espressione usata nel testo è: “to face my dead at last” (affrontare finalmente i miei morti). O’Neill, E., op. cit., p.5.

 

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