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Capitolo I
Da O’Neill a Shepard. Un secolo di drammi di famiglia

I.2.1. “The Family Dilemma”: sicurezza o libertà?

Nei drammi che abbiamo brevemente esaminato la famiglia - con la casa che ne è un’appendice[1] - emerge, da un lato, come il luogo depositario dei sogni di armonia, complicità e reciproca protezione nutriti dai personaggi; dall’altro, lacerato com’è da feroci tensioni e gravato di aspettative irragionevoli, il nucleo famigliare si rivela spesso d’impedimento alle esigenze individuali di serenità ed emancipazione, e non fa che alimentare   nei   suoi  membri  ardenti  desideri  di  fuga.    “Gli  scenari che questa drammaturgia [...] ci evoca” - è stato notato  da Mario Maffi - esprimono “un bisogno acuto di radici che coesiste con una cronica volontà di sfuggire a qualunque radicamento”[2].  Così, se è  vero, come ha affermato un critico, che:

most of the values that operate in our society are still drawn from the bourgeois ideal of domestic harmony, necessary for the smooth functioning of the [social] machine[3],

resta il fatto che “there are subconscious desires fundamentally in conflict with the harmonious ideal”[4], desideri che - proprio perché inconsci e/o a lungo repressi - quando finalmente si manifestano sono causa di profondi turbamenti.

Questa palese dicotomia è stata spiegata da Dennis Welland in termini di lotta tra due forze antagoniste all’interno della cellula domestica (o, meglio, della coscienza dei suoi componenti): una forza centripeta   “holds the family together”[5], compattandola specie nei momenti difficili;  un’altra,  centrifuga, risulta in una tendenza all’evasione e alla dissoluzione dei legami famigliari.  Benché nessuno dei due impulsi prevalga sull’altro,  stando alla descrizione di Welland è questa seconda forza centrifuga a essere più evidente nei “family plays”, che mostrano  “a concern for family failure and destruction, [...] a wish to desecrate the household gods”[6].

Nei momenti di crisi, l’opposizione insorge con più violenza e tiene in scacco i membri della famiglia in un dilemma emotivo, raramente risolvibile se non attraverso l’azione di un elemento esterno: restare nell’alveo famigliare è fonte di affanno ma dona allo stesso tempo la sensazione rassicurante di appartenere a una comunità, di avere delle radici; lasciarlo è rischioso ma  in ultima analisi liberatorio, e  necessario per chi decida di prendere seriamente su di sé le proprie responsabilità  (nonostante, come abbiamo avuto modo di osservare, i casi di autentica emancipazione dal cerchio famigliare siano tutt’altro che numerosi nell’ambito della  drammaturgia  americana).  I personaggi, intimamente divisi tra il desiderio tutto borghese di sicurezza e l’anelito altrettanto  forte  ad  affrancarsi  attraverso un atto  di ribellione agli  schemi domestici[7],  sono  presi  in  un vicolo cieco e la loro impasse  è  visualizzata   dal   fatto  che  essi  restano in genere concretamente bloccati tra le quattro mura della stanza-serra[8]: come animali in gabbia[9] o, nelle parole di Travis Bogard, “a few people shut in a dark room out of time”[10].

La stretta unità di luogo che caratterizza la maggior parte dei drammi famigliari americani (si è giustamente suggerito che “American drama seldom goes beyond the front porch”[11]) assume così un valore tematico ed è funzionale a mettere in luce lo stato di paralisi psicologica, di cui le varie famiglie rappresentate soffrono.  Non di rado, l’unica via di fuga che resta aperta ai protagonisti di tante pièces è l’oblio dell’alcol (come per i Tyrone, per George e Martha, per Claire in A Delicate Balance), il salto nella follia (si pensi a Deborah Harford in More Stately  Mansions di O’Neill, a Blanche in A Streetcar Named Desire, alla stessa Mary Tyrone) o - soluzione estrema - il suicidio (nel caso, ad esempio, di Willy Loman in Death of a Salesman e della protagonista di ‘night, Mother di Marsha Norman, che  prepara  la sua morte come  se si  trattasse  di  un lungo viaggio).   Nel più dei casi, il destino dei personaggi si snoda lungo un sentiero che termina inevitabilmente in “a room whose walls are covered with mirrors, in which they will see their own faces merging with those of their ancestors”[12].
 

[1] Il sostantivo inglese home indica sia l’abitazione in cui la famiglia risiede, sia il sentimento di appartenenza al focolare domestico. In  Curse  è la decisione dei genitori di vendere la casa a scatenare il cataclisma famigliare. Il domicilio si carica così di un forte significato simbolico: il proposito di sacrificarlo per denaro (insieme al bagaglio di ricordi ed emozioni ad esso legati) anticipa e rispecchia la disgregazione finale della famiglia. Per i Tyrone di  Journey  (che una dimora fissa non l’hanno mai avuta, a causa dei continui spostamenti per le tournées teatrali del padre)   la  mancanza  di  una  home  ha  comportato  forti  problemi di alienazione, che  Edmund riassume quando dichiara: “I will always be a stranger who never feels at home, [...]who can never belong” (Sarò sempre uno straniero che non si sente mai a casa, che non potrà mai  mettere radici [ovvero: sentire di essere parte di un luogo, una comunità, ecc., n.d.t.]). O’Neill, E., op. cit., p. 135.

 

[2] Maffi, M., “Teatro americano contemporaneo”, in: Ácoma, II:5, Estate-Autunno 1995, p.41. Concordiamo con Maffi, secondo il quale il tema della “mancanza/ricerca di radici” fluisce “nelle stesse ‘vene’ d’America, da Mark Twain ed Ernest Hemingway  fino a esempi più recenti come il poeta rock Bruce Springsteen e i narratori Raymond Carver e Richard Ford”. Ibid., p. 41.

 

[3] “la maggior parte dei valori che sono operativi nella nostra società derivano ancora dall’ideale borghese dell’armonia domestica, indispensabile al tranquillo funzionamento della macchina sociale”. L’argomentazione di Tom Driver è riportata in: Freedman, M., op. cit., p. 90.

 

[4] “esistono desideri inconsci fondamentalmente in conflitto con l’ideale armonioso”. Ibid., p. 90.

 

[5] “tiene insieme la famiglia”. L’analisi di Welland si riferisce in particolare alle famiglie Tyrone (Journey) e Loman (Death of a Salesman  di  Miller), ma può ben essere utilizzata come  modello interpretativo generale per le famiglie rappresentate dal  teatro americano. Vedi: Welland, D., op. cit., pp. 114-115.

 

[6] “una preoccupazione [particolare] per il fallimento e la disgregazione famigliare, il desiderio di dissacrare i numi tutelari della casa”. Scanlan, T., op. cit., p. 7.

 

[7] Mary Tyrone incorpora magnificamente le due opposte istanze, alla cui pressione finirà per soccombere. La sua personale tragedia rappresenta la conferma della tesi di T. Scanlan, secondo cui: “In the conflict between the institutional demand for mutual relation, on the one hand, and individual desire for total freedom, on the other, the self collapses” (Nel conflitto fra l’esigenza istituzionale di mutue relazioni, da una parte, e il desiderio individuale di totale libertà dall’altra, l’identità si sfalda). Ibid., p. 89.

 

[8] Fu lo storico John Demos a designare la moderna famiglia mononucleare come “hothouse family” (famiglia-serra) e a denunciarne la natura asfissiante. Citato in: Pfister, J., op. cit., p.23.

 

[9] “I’m not living with you. We occupy the same cage” (Non vivo insieme a te. Occupiamo la stessa gabbia). Così sbotta Maggie “la gatta” in Cat on a Hot Tin Roof. Williams, T., Cat on a Hot Tin Roof and Other Plays, London, Penguin Books, 1976, p. 28.

 

[10] “Un gruppetto di persone chiuse in una stanza buia fuori dal tempo”. Riportato in: Pfister, J., op. cit., p. 17. La frase - che è una perfetta formulazione della situazione condivisa da attori e pubblico a teatro - rimanda all’atmosfera di tanta drammaturgia esistenzialista e dell’assurdo: dal trio all’inferno che Sartre presenta in Huis Clos (1943) alle coppie di Beckett e Ionesco, intrappolate in strane torri che sono in ultima analisi spazi mentali: Fin de partie (1957), Les chaises (1952).

 

[11] “I drammi americani raramente si spingono oltre la veranda [della casa famigliare, del motel, della taverna, ecc.., n.d.t.]”. Scanlan, T., op. cit., p. 109. In effetti, buona parte di essi rientra nella tipologia del  chamber play  (dramma da camera), la cui scena - secondo J. Tardieu - “è quasi il prolungamento della [...] coscienza o, meglio, dell’inconscio”. Riportato in: Pavis, P., Dizionario del teatro, edizione italiana a cura di P. Bosisio, Bologna, Zanichelli, 1998. Arthur Miller mostrò di aver riflettuto sulla questione quando dichiarò, a proposito di Death of a Salesman, che la sua prima idea era stata di intitolarlo The Inside of His Head (L’interno della sua testa): vedi Welland, D., op. cit., p. 57.

 

[12] “una stanza le cui pareti sono coperte di specchi, in cui essi vedranno i loro visi confondersi con quelli dei loro antenati”. Dubost, T., op. cit., p. 32.

 

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